Dennis, l’olandese scostante – Di Marco Murri

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Così recitava la strofa di ritornello: “Parlami d’amore/tulli/tulli/tulli/tulli pan”… Era una famosissima canzoncina da camera degli Anni Trenta che contribuì, se mai ce ne fosse stato bisogno, a rendere eterno il nome del Trio Lescano, complesso alter ego e non da meno, se non di un’unità, del Quartetto Cetra. E di una storia di un amore, seppur mai sbocciato, proprio come può capitare a un tulipano sbiadito, si parla in questa storia.

Il nostro fiore olandese si chiama Dennis, nasce il 10 maggio del 1969 ad Amsterdam e cresce in una famiglia dedita a coltivare la passione per il Calcio, tanto che il suo nome gli viene dato in onore di un Campione dell’epoca come Denis Law, solo che il papà è olandese e aggiunge una enne in più per assonanza al proprio idioma.

Il piccolo crescendo si dimostra un predestinato, tanto da non faticare neanche un po’ per scalare tutta la trafila delle giovanili dell’Ajax fino ad esordire nel 1986 in prima squadra al fianco di Marco Van Basten. E proprio al cigno di Utrecht finisce inevitabilmente per essere accostato: ha la stessa statura, 188 centimetri, il solito fisico longilineo baciato dall’eleganza di Nureyev, e, in più, realizza prodezze che sembrano prese dalla teca personale del Marco olandese.

È il calciatore di terza generazione cui viene consegnato il testimone del talento orange dai tempi di Cruijff, sempre nei canoni della scuola aiacide che privilegia la classe rispetto al furore agonistico: sì, perché se una pecca proprio va mossa a Dennis, questa è la carenza di grinta, che ben si abbina a quello sguardo glaciale con cui sembra mantenere le distanze oltre che dai suoi marcatori, anche da chi cerca di strappargli qualche dichiarazione.

Dopo aver fatto ammattire la banda di Mondonico nella doppia Finale UEFA del 1992, in cui brilla particolarmente all’andata al Delle Alpi vestito per l’occasione in giallo verde per dar maggiormente nell’occhio, Bergkamp è sui taccuini delle più forti d’Europa, e chiaramente della Serie A, Campionato principe.

Lo desidera ardentemente Agnelli per affiancarlo a Baggio, e sembra fatta; senonché Ernesto Pellegrini, in una classica sfida intestina sul mercato, lo strappa ai bianconeri per vestirlo di nerazzurro e rilanciare le sorti di un Inter in declino dopo l’ultimo scudetto vinto sotto la guida di Trapattoni: il prezzo è di 18 miliardi di lire, oltre alla promessa ai lancieri di acquistare con lui anche il compagno di squadra Wim Jonk, buon centrocampista.

Le aspettative, come per ogni fiore all’occhiello che si rispetti, sono altissime: con Bergkamp Bagnoli può puntare allo scudetto, pensano i più, compresi i tifosi che non vivevano un’estate così trepidante dall’acquisto di Lothar Matthäus.

Sta di fatto che quell’Inter è molto carente in tutti gli altri reparti: è l’anno di Manicone, Tramezzani, Angelo Orlando, Seno e di uno Schillaci che aveva ormai finito le cartucce “Mundial”.

Il biondo Dennis non si ambienta, da buon olandese scostante è anche incostante: sta sei mesi senza segnare in Campionato e diventa il bersaglio della Gialappa’s, che lo irride per il suo italiano stentato da cui estrapola una presentazione in cui annuncia tutto il suo “antusciasmo” per la nuova avventura… Purtroppo, di entusiasmo ce ne è poco nel collage di goal sbagliati mostrati a “Mai dire gol”.

Ogni tanto, però, qualche lampo della sua classe lascia tutti abbagliati, tanto da condurre l’Inter alla conquista della Coppa UEFA, di cui si laureerà capocannoniere, a dimostrazione che uno così non può disimparare a giocare.

Resta anche la stagione successiva, ma non è a suo agio, o meglio non ce lo fanno sentire; e comunque lascia Milano con 22 goal in 70 partite, che non sono una miseria.

Nel frattempo ha anche partecipato da protagonista al Mondiale statunitense, anche se arrivarci gli è costato un esaurimento nervoso: sì, perché qualcuno, conoscendo la già nota ritrosia del ragazzo a volare visto un precedente che risale a quando, in una trasferta aerea, sorvolando l’Etna si spaventò non poco per delle forti turbolenze, ebbe la brillante idea di dirgli che c’era una bomba sull’aereo che li stava per trasportare negli States.

In campo nella massima competizione però si riprese alla grande e andò a segno per ben quattro volte, facendo nuovamente stropicciare gli occhi a tutti grazie al bagliore delle sue giocate. Solo il Brasile pose fine alla sua cavalcata.

Giunto nel ’95 all’Arsenal, però, da buon personaggio ritroso a tutto ciò che non lo convinceva a pieno, fece aggiungere una postilla al contratto che lo avrebbe esentato da ogni lunga trasferta da affrontare in aereo: si sarebbe mosso in macchina, divenendo, in contrapposizione a Federico, noto DJ Anni Ottanta dallo pseudonimo di “Olandese volante”, l’olandese non volante.

La sua carriera all’Arsenal prenderà, questa sì, il volo: numeri di alta classe a getto continuo che faranno innamorare Highbury e il suo allenatore Wenger.

Su tutti un goal passato alla storia del Calcio, in cui lui, spalle alla porta e al proprio marcatore, ricevuto il passaggio butta la palla da una parte con un lieve tocco d’interno per poi scivolare piroettando sull’altro lato del malcapitato difensore e ricongiungersi in un idillio col pallone che gli tornò magicamente incontro.

In quegli anni trovò una verve caratteriale ai più misconosciuta, a tal punto da scomodare il più noto degli ossimori per cui anche il ghiaccio può diventar bollente: a Euro 2000 si permise di usare niente popò di meno che Sinisa Mihajlovic, reo di qualche ruvidezza gratuita, come zerbino, calpestandolo letteralmente.

Tutto ciò non fece altro che acuire nei tifosi nerazzurri il dispiacere per averlo perso così presto, per non aver saputo andare oltre alcuni suoi atteggiamenti, proprio come accade a chi, dopo aver conquistato la più bella ragazza del Liceo, si arrende dopo pochi mesi di fidanzamento perché ne soffre la sua voglia di libertà e il suo essere apparentemente altezzosa e, non sentendosi a suo agio finisce per rompere.

Chissà, forse se avesse tenuto duro per un altro po’ quell’amore sarebbe potuto sbocciare, proprio come fece quel tulipano un po’ sbiadito, ma che dopo abbagliò tutti col suo talento orange.

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