Pablo è vivo – Di Marco Murri

Calcio In Primo Piano

Un cognome come tanti, tantissimi. Forse il più comune in Italia, tanto da renderlo utile per mille ipotetici esempi. Eppure a distanza di tutti questi anni quando dici “Rossi” il primo che identifichi è lui, Paolo. Ma la cosa strabiliante è che, se un italiano provasse ancora oggi a fare un viaggio in Brasile e, per caso, parlando con un indigeno, si facesse scappare in una conversazione quell’aggettivo identificativo di un colore al plurale, quel brasiliano sussulterebbe e strabuzzerebbe gli occhi, prendendo quel “qui pro quo” derivante da una mancata comprensione della Lingua Italiana come un affronto al suo Paese, tanto da farglieli iniettare, quegli occhi, che allora sì, anch’essi, diventerebbero rossi, come quel centravanti che uccise i sogni di una nazione invincibile, in un’estate che chi ha avuto la fortuna di vivere non dimenticherà mai.

E pensare che, se le cose andassero in maniera logica e razionale, quel Mundial non sarebbe mai andato così.

Siamo nella primavera del 1982 e la Juventus, tutta in blu, in pieno duello Scudetto con una formidabile Fiorentina, affronta al Friuli l’Udinese. Trapattoni, un po’ a sorpresa, schiera nell’undici titolare un numero 9 che da lontano sembra un po’ più pingue di come eravamo soliti ricordarlo, ovverosia un fuscello di nervi e agilità: ma l’altoparlante quando dà le formazioni non può mentire, quindi il 9 è lui: Paolo Rossi.

Torna a calcare un campo per una gara ufficiale al termine di ben due anni di squalifica comminatagli per aver truccato, insieme ad altri giocatori, diverse partite del Campionato 1979-80: in particolare gli si imputa di aver attivamente manomesso, peraltro grazie a una sua doppietta, Avellino-Perugia, finita 2 a 2. Tutto ciò perché qualcuno gli ha presentato due persone che a quanto pare “giocano alle scommesse” e a cui Paolo ingenuamente ha confidato che comunque il punto in quella gara starebbe bene a entrambe le squadre, e che a lui più di ogni altra cosa interessa segnare per vincere la classifica cannonieri.

Boniperti, che lo aveva perso per troppa taccagneria anni prima, non volendone riscattare la sua metà al Lanerossi Vicenza, stavolta fiuta l’occasione e lo compra anche se sotto squalifica, iniettando nel sangue di Paolo una fiducia che gli moltiplica i globuli rossi e lo rigenera in un morale atterrito. Del resto, uno che ha saputo superare in giovanissima età plurimi interventi alle ginocchia, la forza d’animo sa dove sta di casa.
Per la cronaca al Friuli quel 2 maggio 1982 la partita termina 1 a 5, e Rossi, anticipando di testa anche il compagno Tardelli, ritrova il goal. Segnarsi questo episodio.

La stagione termina con lo Scudetto bianconero e tutte le attenzioni sono per il Mundial in Spagna e per gli azzurri di Enzo Bearzot.

La Stampa vorrebbe in squadra Roberto Pruzzo, capocannoniere straripante della Roma; ma “Il Vecio”, memore delle strabilianti gare giocate da Paolo al Mondiale argentino del ’78, non ha dubbi: “Se avessi chiamato Pruzzo questo avrebbe preoccupato Rossi, togliendogli fiducia e mettendogli pressione alla prima brutta prestazione, cosa che avevo messo in conto data la sua lunga inattività”, dirà anni dopo.

Per il C.t. azzurro il centravanti che gli può far vincere il Mondiale è lui, scaltro, abile, istintivo. È il suo uomo e Enzo, come si fa nei rapporti personali stretti e affettivi, ripone tutta la sua stima e la sua riconoscenza in questo ragazzo che nel frattempo è tornato a essere un pugno di ossa collegate da muscoli scattanti e mai ipertrofici.

Poco importa se l’Italia non vince mai le partite del Girone, e, soprattutto, se il suo pupillo non solo non segna, ma appare svuotato. Bearzot sa che gli serve un rodaggio di qualche settimana per essere a puntino. Con l’Argentina Rossi si mangia anche un goal che sembra fatto, però, è vivo, collegato ad alto voltaggio. Adesso al Sarrià, casa dell Espanyol, c’è il Brasile dei fantasisti, di Falcao, Socrates, Zico e Edèr.

In un abbagliante e torrido pomeriggio catalano, si consuma una trasformazione che ha del magico: il numero 20 azzurro segue per filo e per segno il consiglio del suo saggio padre putativo, che gli ha detto negli spogliatoi: “Muoviti alle spalle di Junior, che tanto lui non è abituato a marcare e così avrai spazio per colpire”. E così accade: dopo appena cinque minuti il suo compagno di mille battaglie, Cabrini, che in quei giorni alcune malelingue insinuano essere qualcosa in più che un semplice compagno in senso di campo, gli pennella un arioso traversone dalla sinistra e Rossi, proprio come gli ha detto Bearzot, scompare e riappare rapace dietro Junior per impattare perfettamente di fronte sulla corsa: è goal! È la fine della maledizione. È il momento che lo fa svoltare, che lo svuota di tutta la tensione e al contempo lo riempie di consapevolezza dei suoi poteri da Re Mida del futbol. Dopo venti minuti si ripete mandando in tilt la zona carioca, colpendo secco dal limite dell’area per il nuovo vantaggio azzurro.

Poi, nella ripresa, quando ancora la partita è tornata sul pari, completa il suo tris col suo marchio di fabbrica, la rapina: tiro sporco dell’altro suo amico bianconero Tardelli, e Paolo, spalle alla porta, si avvita su se stesso per correggere beffardamente alle spalle di Valdìr Peres.

È un tripudio per l’Italia, una catastrofe per tutto il Brasile, non solo quello sportivo. Il Sole quella sera se ne va a dormire negli incanti stupendi della Costa Brava, diventando rosso fuoco. E da quel momento in poi, Paolo Rossi da Prato diventa solo e soltanto “Pablito”.

Adesso si sente invincibile, “Pablito”, come qualcuno lo aveva battezzato quattro anni prima in Argentina. Ma solo ora ne è consapevole, e solo ora la gente ricorda l’eufonico e ispanofono nomignolo.

In Semifinale c’è la Polonia, e nessuno è preoccupato, Ci pensa lui, deciso e decisivo, di piede e di testa. Re Mida. Gli basta un tocco ogni volta. 2 a 0 e tutti in Finale, da Barcellona a Madrid.

Quell’11 luglio 1982 al Bernabeu ci aspettano i tedeschi, solidi e imperturbabili. Sul finale del primo tempo c’è un rigore a nostro favore: il rigorista designato è Cabrini che, mentre sta per andare sul dischetto si sente dire “Antonio, te la senti?” È “Pablito”, che ormai non ha più paura di nulla, Un mese fa si sarebbe nascosto. Adesso no, e finisce per caricare involontariamente di pressione ancor di più il suo amico, che tira fuori. Ma niente paura. Dieci minuti dopo il rientro in campo c’è un cross, stavolta dalla destra, di Gentile. Vi ricordate del suo primo goal al rientro dalla squalifica? Rossi fa la stessa cosa, si getta in tuffo come al fotofinish di uno sprint di atletica e batte tutti sul tempo, anche il suo compagno, sempre lui, Cabrini. È l’1 a 0 che dà il là alle danze, danze che si protrarranno per tutta l’estate, da penisola a penisola, traslandosi da quella iberica a quella a forma di stivale.

Quando ormai sarà inesorabilmente imbiancato e più segnato in volto, ma sempre con quel sorriso bonario, dirà “Pablito” pensando alla notte Mundial: “In quegli istanti chiedevo al Signore, ti prego, ferma il tempo”.

Il tempo noi non possiamo fermarlo, purtroppo, ma di certo possediamo la memoria, e la memoria tramandata custodisce la fonte più preziosa della Storia.

Io, nato il 14 giugno del 1982, sono ad ogni effetto un figlio di quel trionfo Mundial, e ogni volta che espongo la mia anagrafica suscito sempre lo stesso commento estasiato di coloro che, più grandi di me, rievocano con lo stesso sorriso i dolci giorni di quell’estate. Perciò non posso che ringraziarti anch’io del tesoro emozionale che hai lasciato a documento ai posteri nei giorni, negli anni, nei secoli. Non sarà la tua dipartita da questa terra ad annullare i tuoi goal, i tuoi sorrisi, la tua pacatezza da ragazzo in villeggiatura, che dall’Argentina mandava una cartolina allo stabilimento balneare a Viareggio, dove andava da ragazzino, nel bel mezzo di un ritiro mondiale.

Hanno ammazzato Pablo, ma Pablo è vivo.